Chissà perchè andiamo lassù di Manrico Dell’Agnola
Chissà perchè andiamo lassù di Manrico Dell’Agnola

Se devo analizzare su me stesso il “perché” del mio andare in montagna, o del generale andare in montagna, devo tornare indietro di più di cinquant’anni ed il ricordare e ricordarmi bambino incantato e poi incatenato dalla maestosità delle pareti, mi porta a pensare a qualcosa di atavico, una strana forza che non apparteneva ai miei genitori e non derivava da loro insegnamenti, ma che arrivava da molto più lontano; era come se avessi ereditato i ricordi dei miei avi, certi luoghi pareva addirittura che li conoscessi già. Non dimenticherò mai lo stupore del veder apparire, dopo l’ultima forcelletta oltre il laghetto del Coldai, la grande parete nord-ovest della Civetta. Ricordo come adesso i contrafforti che fanno da base alle pareti verticali della Punta Civetta e della Torre di Valgrande.

La storia ci insegna che l’uomo da sempre cerca di elevarsi. Ci sono molti modi per farlo, ma certamente il modo più intuitivo e primordiale è quello fisico.

Se lasciamo un bambino libero in uno spazio aperto lui sarà attratto dal punto più alto ed istintivamente salirà su un sasso o su un albero, forse semplicemente per vedere un po’ più in là. Infatti, non a caso, l’arrampicata è uno schema motorio di base.

Per gli antichi le montagne erano la dimora di dei e demoni e se da un lato c’era il desiderio di salire dall’altra c’era la paura, giustificata poi dai rischi che correva chi intraprendeva certe esperienze. Per noi occidentali, e quindi materialisti, elevarci non può prescindere dall’azione, una cima deve essere conquistata fisicamente. I grandi maestri orientali invece rifiutano l’azione sostenendo la possibilità di ascendere mentalmente attraverso la meditazione, ma in ogni caso anche per loro il luogo della meditazione si trova quasi sempre sotto le grandi montagne, quindi già in alto, anche se non proprio su una cima. Quindi anche il loro concetto è relativo e rientra, seppur con modalità differenti, in quel medesimo istinto a cui nessun uomo può sottrarsi.

Ma l’istinto ed il bisogno molte volte si contrastano e se il problema è procurarsi il cibo difficilmente si penserà di scalare una montagna se non per esigenze di sopravvivenza come la caccia o la raccolta di bacche.

Certamente lo aveva capito bene Simone De Silvestro, cacciatore di camosci zoldano, quando arrivò in cima alla Civetta per la prima volta intorno al 1855 consapevole che la bestia che lo aveva costretto a salire tanto in alto non era mai esistita. Erano altri anni ed era difficile giustificare in tempi di fame azioni ludiche; si parlava già di alpinismo, ma proprio per la sua apparente inutilità era appannaggio solamente di nobili e ricchi. Non a caso il termine universale per definire il salire le montagne è “Alpinismo”, da Alpi, che all’inizio di quest’attività erano le montagne situate nel luogo più evoluto, almeno dal punto di vista del benessere economico, del pianeta. A noi visionari piace credere che Petrarca, salendo il Mont Ventoux nel 1336, sia stato il primo alpinista proprio perché il primo ad ammettere di aver raggiunto la cima al solo scopo di godere della salita e delle meraviglie che poté vivere e assaporare lungo la via e una volta guadagnata la cima.

Nel corso degli anni salire le montagne ha avuto sugli uomini, sulle autorità e sull’opinione pubblica risvolti diversi e si è spesso passati dal considerare gli alpinisti dei superuomini osannati dalle folle a pazzi criminali suicidi o ancor peggio parassiti sociali.

Questo perché ci sono molti modi di amare la montagna.

C’è l’amore platonico dell’escursionista, che si accontenta di guardare dal basso la fonte della sua ispirazione e poi c’è l’alpinista, che vuole essere coinvolto e corrisposto dalla montagna e anche qui ci sono le differenze tra il conquistare, il farsi conquistare ed il violentare.

Sigfrido combatteva il drago con la sua spada ma se al suo posto avesse utilizzato un bazooka questo gesto lo avrebbe trasformato da eroe in assassino.

Manrico Dell’Agnola

Biografia Manrico Dell’Agnola

Manrico Dell’Agnola nasce ad Agordo nel 1959. Da sempre appassionato di montagna ha girato il mondo scalando le più ardue pareti anche con l’intento, attraverso la fotografia, di portare a casa emozioni per sé e per gli altri. A suo attivo migliaia di salite alpinistiche, prime solitarie, vie nuove e realizzazioni in tempi record.

DONNAFUGATA

Donnafugata è una difficile via alpinistica sulla parete sud della Torre Trieste in Civetta. Per lo scalatore e regista Manrico Dell’Agnola è stata una grande soddisfazione il successo di questo cortometraggio che nel giro di un anno ha raccolto consensi nelle sale e riconoscimenti, vincendo al Milano Mountain Film Festival e al Verona Film Festival e  raggiungendo più di 100.000 visualizzazioni in rete.

I protagonisti “della pellicola” sono i falcadini Sara Avoscan e Omar Genuin, coppia in montagna e anche nella vita. Teatro delle  loro realizzazioni sono le pareti più imponenti ed impegnative delle Dolomiti. La regia è semplice ed essenziale e lascia spazio all’immaginazione, contrapponendo alle parole i paesaggi ed i momenti di vita autentica nel corso di questo lungo e difficile viaggio verticale.

Parlano le immagini, parla la musica, parlano le montagne, i gesti e le espressioni di questi giovani scalatori bellunesi. La produzione di questo film è dell’azienda Karpos di Fonzaso, marchio del quale Manrico è stato 12 anni fa uno dei fondatori.

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